IV

Lungi da una mortificazione della poesia, un simile studio storico-critico farà tanto piú risaltare la sua novità e originalità che si afferma in un vivo intrico di tensioni e di esigenze meglio che in una solitudine astorica, in un Olimpo di archetipi immobili e celesti: con l’inerente grosso problema di una speciale formazione del valore poetico, di una potenzialità personale che si sviluppa e si afferma non per un intervento celeste e inconsapevole rispetto a colui che la concreta, e ha una sua storia, un suo svolgimento dinamico per quanto profonda e nuova essa sia, un suo effettivo farsi ed esistere entro uno svolgimento della personalità e della poetica.

Sicché partendo dai caratteri rilevati nella poetica, dalla sua evidenziazione della storicità generale e peculiare dell’arte, del rapporto personalità-storia, tanto piú si reagisce alla riduzione contenutistica o formalistica dell’arte, all’isolamento dell’opera dalla viva storia dinamica di tutta la personalità e di questa dai suoi rapporti con la storia e con le tensioni poetiche in essa operanti.

E tanto piú risulta la possibilità di una ricostituzione della storia letteraria che non sia né semplice storia di forme stilistiche, né semplice storia di contenuti solo evidenziati nell’arte, né «serie» di personalità o di opere monadisticamente solitarie, ma storia di rapporti e di nessi entro cui si svolgono personalità e opere in cui la varia tensione di un’epoca diventa, dove diventa valore artistico.

Una storia dinamica e pur non esasperatamente irrequieta e non priva di consolidamento di realizzazioni artistiche, che il critico dovrà effettivamente ricostruire e far valere in una prospettiva la cui ardua e tormentosa ambizione sarebbe quella di giungere a cogliere l’estrema concretezza della realizzazione poetica, nei suoi modi, nel suo linguaggio, nelle sue caratteristiche personali, attraverso la ricostruzione di tutto il processo artistico particolare e della tensione fra poetica e poesia, mai separati dalle loro ragioni interne e storiche.

Dico «ricostruzione» perché voglio scartare anzitutto una pura «costruzione» arbitraria e indipendente dai testi e dalla realtà della personalità e della storia assunti come sollecitazione pretestuosa ad immagini prive del momento essenziale della fedeltà e della comprensione: l’ambiguità particolare di un testo, di una poetica, di una personalità, la sua ricchezza di stimoli, la sua profonda potenzialità a volte polisensa non esclude mai che il critico debba e possa cogliere la radice della stessa ambiguità. E la «ricostruzione» accentua e realizza l’aspetto operativo dell’operazione storico-critica, il suo carattere di collaborazione con il poeta e con il tempo letterario, e presuppone, come meglio poi vedremo, un critico dotato di conoscenze tecniche che lo immettano nel vivo della tecnica dell’arte studiata, di conoscenze ed esperienze e disposizioni a rivivere tutta la gamma delle esperienze e dei problemi e delle soluzioni del poeta o del tempo letterario, a ripercorrere dall’interno del suo farsi l’operazione del poeta, la vita della storia letteraria, per giungere ad una immagine intera e internamente valutata, cioè definita e qualificata, non misurata o contemplata o solo puntualmente commentata o suggestivamente evocata.

Ricostruzione sempre storico-critica e, pur nelle sue varie proporzioni e nei suoi vari accorgimenti compositivi, sostanzialmente unitaria.

E infatti già nel caso di un singolo autore la critica sarà insieme storiografia, e nel caso della delineazione di un’epoca letteraria l’operazione storiografica sarà sempre necessariamente disposta alla valutazione e al giudizio concreto[1], al riconoscimento della tensione alla poesia e delle sue storiche forme e della sua pertinenza ad una vera storia letteraria: che non sia, d’altra parte, solo rappresentazione dei grandi poeti, ma graduata e precisata rappresentazione dell’esteticità delle varie epoche e dei loro diversi valori realizzati, e del rapporto fra questi e la tensione poetica, i loro corrispettivi culturali e storici, e il loro significato ed envergure nella vita di una società e civiltà storica.

Ché, se può essere discutibile la proposizione del Dilthey secondo cui in ogni epoca è viva la poesia in tutta la sua ricchezza[2], sarà pur da affermare che in ogni epoca vive una tensione alla poesia e che essa non può essere relegata in una storia astrattamente separata del costume e della cultura.

Cosí come ho dubbi, pur riconoscendo l’arricchimento di articolazioni del fatto espressivo da essa portato, sulla assoluta applicabilità della separazione crociana della poesia e della letteratura come regni incomunicabili (donde i tentativi del Fubini di un raccordo attraverso la poeticità del linguaggio[3]) e sulla inutilità di una considerazione effettiva dei minori, delle personalità che non possedendo una intera forza poetica pur collaborano, con varia efficacia, alla tensione poetica, al formarsi di poetiche e di tradizioni letterarie, e vivono una volontà di poesia e il suo rapporto con le esigenze culturali del loro tempo.

Malintesa pietas democratica che voglia assurdamente trovare valore dove non c’è? O malinteso storicismo che voglia magari accettare i giudizi entusiastici dei contemporanei su autori che la nostra coscienza ed esperienza critica han rifiutato? Non si tratta di ciò, ma, a parte il fatto che l’applicazione del canone crociano di poesia e letteratura ha finito per scartare dal computo dei poeti autori che un accostamento piú intenso ci fa riconoscere come tali[4] (valga per tutti il caso del Goldoni e del Molière nel giudizio crociano), in una storia letteraria che miri a risalire ai grandi fatti poetici attraverso la piena considerazione delle poetiche e della tensione alla poesia che variamente e con varia forza vive nei diversi periodi storici anche i minori, gli scrittori dotati di disposizioni poetiche, anche se mancanti del dono profondo della grande poesia, hanno pure un loro posto e una loro funzione.

Costituiscono la trama di un gusto operante, anticipano ed offrono temi, moduli stilistici, forme di linguaggio, dispongono in direzione estetica elementi vivi della vita sociale, politica, culturale, partecipano al dialogo delle poetiche e alla costituzione di linee tensive, entro una storia dinamica e dialettica, articolata e graduata che voglia recuperare al massimo la realtà di un’epoca nella sua viva complessità problematica e rifiuti la genericità di una semplice evocazione di «climi» spirituali e lo sfondo lontano e sbiadito di una storia generale e generica, e cosí inutile alla comprensione dei veri poeti.

Non solo va considerato (e magari per verificare gli errori e la velleitarietà di un’epoca) ciò che certi autori ed opere rappresentarono per i loro contemporanei come immagine e stimolo di poesia (il caso eccezionale dell’Ossian cesarottiano cosí ricco del resto di avvii e suggestioni che non possono risolversi in pura abilità nel traduttore-creatore italiano), e il peso effettivo anche in sede poetica di momenti e accenti poetici incapaci di una salda organicità totale. Ma tutto ciò va inserito in una storia letteraria che sia storia delle poetiche e della tensione fra poetiche e poesia, e dei valori poetici effettivi che vi si affermano.

Alle ricostituzione della storia letteraria, già in periodo crociano (e al di là delle operazioni di storiografia crociana per monografie saldate da rapide evocazioni di climi e di epoche, di cui è esempio particolare la Storia del Flora, pur con la ricchezza stimolante di osservazioni e recuperi antologici dei minori[5]; il caso del Momigliano è piú complesso e singolare e tutt’altro che privo di certi quadri d’insieme folti e criticamente suggestivi[6]) da varie parti si tese con proposte e parziali realizzazioni.

Ora l’orientamento storico-critico basato sullo studio delle poetiche si inserisce in un punto centrale della piú matura discussione in atto e del quadro di alcuni tentativi che mirano a superare la risoluzione crociana in storia per monografie, magari cercando una continuità con la lezione crociana nei suoi motivi piú atti a rompere dall’interno del sistema l’incomunicabilità del fatto poetico con le altre dimensioni della vita umana. Come ha fatto recentemente il Sapegno nel suo importante ed equilibrato saggio, Prospettive della storiografia letteraria[7], utilizzando una frase del Croce svolta in accezione gramsciana: «la poesia non genera poesia, come la filosofia non genera filosofia, né l’azione azione, senza che ciascuna di esse ripassi attraverso tutte le altre forme, perché la nuova azione ha a sua necessaria condizione nuova fantasia e nuovi concetti, la fantasia, nuova filosofia, nuovi fatti e nuove azioni; la nuova poesia, nuovi pensieri e nuove azioni, e pertanto nuovo sentire»[8]. Anche se a ben guardare, questa frase, che deriva dalla posizione crociana della circolarità dello spirito, avvia piuttosto un discorso sulla duttilità e coordinazione interna delle forme dello spirito e non riconduce necessariamente, al di là di nessi generali dello spirito in una storia generale o nell’interno del singolo poeta, ad una articolata ricostruzione di nessi precisi e di rapporti fra gli scrittori, e fra questi e la storia letteraria e non letteraria della loro epoca, come può meglio essere avviato in una retta utilizzazione degli studi di poetica.

Mentre le piú recenti tendenze di tipo stilistico-linguistico che, malgrado punte assolutamente astoriche, pur implicano importanti esigenze di storicità (storicità delle tradizioni letterarie e linguistiche) appaiono (quando poi non se ne tentino giustapposizioni piuttosto eclettiche e poco convincenti con posizioni ideologiche-sociologiche, il cui corrispettivo in sede artistica può essere il caso negativo della Vita violenta del Pasolini) singolarmente parziali e insufficienti rispetto alle esigenze di una ricostruzione storico-critica che, proprio misurando sul momento chiarificatore della poetica la complessità e la organicità del fatto artistico, la natura peculiare e generale della storia letteraria, non può accettare né una storicità solo letteraria (tradizione di stile, di moduli e temi letterari, dialogo di poeti-letterati e sperimentatori di forme linguistiche e stilistiche), né d’altra parte una storicità sostanzialmente contenutistica, il cui rischio supremo è quello di perdere la peculiarità del fatto artistico, la novità dialettica della poesia, riducendola a rispecchiamento e documento della realtà sociale, non avvertendone la natura di forza effettiva «nella» storia e mai «dopo» la storia.

Pur ben consapevole dell’altezza di tono, delle genuine ispirazioni critiche e della complessità di cultura e di tecnica che nella direzione stilistico linguistica si son pronunciate e sviluppate (e si pensi al grande valore di una nuova attenzione alla storia della lingua nel suo elemento di specifica e generale storicità) e ben consapevole di ciò che essa ha portato nel dialogo critico in atto e delle possibilità di assunzione non eclettica di molte sue istanze anche da parte di chi sia fuori dalla sua linea precisa, ritengo di dovere esprimere un chiaro e fondamentale dissenso rispetto al fondo di una critica che implica alla fine, nelle sue tendenze estreme, una nozione eminentemente specialistica e tecnicistica della critica e della letteratura, e risolve questa e la sua storia in un’aristocratica e raffinata discussione di tecnici della parola e dello stile senza comunicazione interna ed esterna con la vita e la cultura in cui la parola e lo stile trovano la loro necessità e le loro ragioni vitali e distinguono (pur nella similarità di necessità tecniche e di esercizio elaborativo) la parola profonda dei poeti da quella di puri sperimentatori lontani dalla vita e dalla poesia.

Giustissimo considerare e utilizzare al massimo nella storia del singolo autore e della letteratura la dimensione letteraria e tecnica, che è anche un elemento di storicità peculiare del fatto artistico. Ma inaccettabile è poi ridurre la complessa storia del poeta e della letteratura a questa sola dimensione.

E se questa istanza antiromantica (appoggiata del resto da vari momenti della metodologia e piú dell’esercizio di crociani e di crociani non ortodossi come il Russo) è evidentemente fondamentale nella stessa impostazione dello studio di poetica e storicamente ha rappresentato una validissima reazione al puro psicologismo o al culturalismo generico di certa critica estetica e storicistica idealistica, essa, nella sua saturazione e pretesa di totalità, rivela la sua unilateralità e la sua essenziale diversità da una interpretazione storico-critica che parta dal vivo rapporto radicale e concreto fra persona e storia, fra arte e vita. E la stessa storicità che io vi ravviso si fa realmente, nella sua unilateralità, astorica ed astratta promovendo la costruzione di moduli di continuità che, nella loro riduzione ad absurdum, rimandano a mitiche origini i vivi contatti fra letteratura e realtà e trasformano la tradizione in un enorme vocabolario tematico-stilistico tutto e sempre disposto al lavoro letterario dei suoi scrittori.

Perché, ad esempio, considerare i poeti trecenteschi perugini «solo» come applicatori e rinnovatori letterari di moduli e temi coridoneschi, disconoscendo il fatto storicamente accertabile che quella tematica aveva un suo fondamento reale in aspetti della società perugina del tempo e nella cerchia di quei borghesi e notai la cui spregiudicatezza realistica si rivela coerentemente nel descrittivismo paesistico e nel linguaggio alimentato di forme locali e nel raccordo con una visione antiascetica collegata alla pienezza e ricchezza di vita del comune perugino[9]? Perché ridurre il petrarchismo cinquecentesco, pur nella sua fortissima letterarietà, solo ad una ripresa e variazione di stilemi petrarcheschi senza avvertire le sue ragioni personali e generali di carattere culturale e storico[10]? Mentre dovrebbe esser chiaro che (proprio nello stesso svolgimento dialettico della critica) la posizione antiromantica, che valorizzò già nel Croce la realtà pedagogica della tradizione petrarchistica nel Cinquecento, richiede non la sua estremizzazione in una storia di pure variazioni di stilemi su di una «tematica»[11] fissa e ripetitoria, ma un approfondimento delle ragioni storiche, culturali, personali di esperienza e di complessa poetica (magari per una nuova limitazione e distinzione del fenomeno), una verifica della portata e del significato di quella scuola entro la civiltà rinascimentale e quindi anche le ragioni della sua crisi entro il mutamento non solo del gusto, ma di tutta la direzione della storia dell’ultimo Cinquecento.

Ché altrimenti sarebbe anche impossibile comprendere il perché (e il come è indissociabile dal perché) del suo tramontare e del sorgere di nuove poetiche e di nuove forme letterarie e stilistiche, nell’incontro di nuove concrete situazioni e di nuove ispirazioni e tensioni poetiche.

Altrimenti la letteratura va per la sua strada o galleria chiusa, e la storia segue le sue strade in una sostanziale reciproca indifferenza[12]: verificabile viceversa anche in quei manuali storici che relegano l’esperienza artistica in un capitoletto a parte senza calcolarne la forza nella storia stessa che vogliono presentare.

E che poi lo scrittore sia un letterato e abbia un rapporto specifico con la letteratura del passato e con le sue forme è fatto fortemente evidenziato e concretamente avvalorato proprio negli studi di poetica, ma esso può, se isolato e ingigantito, diventar sin troppo ovvio, svolgersi in una vera e propria tautologia improduttiva e fuorviante, e importare una inaccettabile riduzione della poesia a tecnicismo: donde (una volta svuotata la poesia dei caratteri personali e storici) la possibilità di descrizioni e diagrammi livellatori ed astorici.

Ma soprattutto nei riguardi della ricostruzione della storia letteraria mi pare assolutamente improduttiva e fuorviante una storia letteraria concepita come pura e semplice Stilgeschichte che finisce per lo piú (complicata magari da una generica e sommaria Geistesgeschichte) per creare unità «epocali» del tutto generiche o falsificanti: quale, per citare un caso estremo, è lo hatzfeldiano Rokoko als Epochenstil, in cui Marivaux, Voltaire, Diderot, Rousseau pertengono ugualmente ad uno stesso Rokokomensch e Rokokostil e le profonde peculiarità delle poetiche e delle personalità dell’illuminismo e del preromanticismo si risolvono nell’indistinta unità «rococò»[13].

E, alla fine, si dovrà pur osservare che al fondo della maggior parte dei casi di questa prospettiva critica e falsamente storiografica si cela una sostanziale mancanza di impegno storico, ideale, morale che non può non riflettersi nella stessa portata e profondità dell’operazione critica.


1 Significativa in proposito è la discussione svoltasi fra R. Wittkower e L. Venturi nel convegno dei Lincei (Manierismo, barocco, rococò, Accademia nazionale dei Lincei, CCCLIX, 1962, p. 327) sull’unità o distinzione di storia artistica e letteraria, e critica. Accetto pienamente l’esigenza del compianto amico L. Venturi («senza critica la storia dell’arte si ridurrebbe a storia del costume e la storia politica sarebbe soltanto una cronaca»). Il Santoli osservò poi sull’intervento del Venturi: «Mentre la critica è rivolta essenzialmente alla qualificazione dell’opera singola, è giudizio di valore, compito della “storia” è invece la rappresentazione di correnti espressive, di civiltà letterarie e artistiche, affini e contrastanti, nel loro percorso diacronico e nella loro reciproca posizione (con relative azioni e reazioni) in un certo tempo. Per questo a me pare che oggi (almeno in Italia e negli studi letterari) giovi insistere piuttosto sulla distinzione anziché sull’identità fra critica e storia». La replica del Wittkower è poi estremamente ambigua: accetta l’osservazione del Venturi, la sviluppa nel senso di «una critica dal punto di vista storico», ma postula uno storico d’arte (con implicito un critico dal punto di vista storico) ancor distinto dal critico d’arte. A me pare invece, sarà ben chiaro, che anche in Italia, e anche negli studi letterari, storia e critica devono unirsi e articolarsi (come sempre han fatto nei casi migliori) se non si vuole ricadere nel puro monografismo crociano e in una considerazione astorica dell’opera singola e in una storia che non saprei come qualificare se non soccorressero esempi di simili storie senza nervo e senza luce critica, riprova non tanto di un pregiudizio metodologico (che ambiguamente riprende elementi negativi crociani senza giungere alla coerente posizione del Croce: storia della letteratura come storia dei singoli poeti o delle singole opere) quanto di impotenza critica e quindi di impotenza storiografica. Dico anche negli studi letterari: ma forse dovrei dire, piú, anche negli studi di arte figurativa dove troppo spesso filologia, critica e storia o convergono solo nella ricerca attribuzionistica o si separano in storia degli stili e in critica: e questa (che, pur nelle forme estreme della pura visibilità, fu una lezione notevole per noi critici letterari, contro i pericoli dello psicologismo e del contenutismo) troppo spesso prescinde dalla intera realtà della personalità artistico-storica e si avvantaggerebbe di un maggiore ricambio con la critica letteraria piú fedele alle istanze desanctisiane.

2 W. Dilthey, Esperienza vissuta e poesia, Milano 1947, p. 5.

3 È questo uno dei punti interessanti dello svolgimento crociano del Fubini metodologo (v. M. Fubini, Critica e poesia, Bari 1956). Comunque quel filone di svolgimento è certo uno spiraglio vivo su esigenze che, anche in campo piú direttamente postcrociano, sono ormai attive al di là della piú rigida ortodossia crociana. D’altra parte la proposta crociana di letteratura e poesia (che veniva incontro comunque alle istanze della dignità della «letteratura» proprie di una fase della nostra civiltà letteraria) era il piú avanzato sforzo di arricchimento e di articolazione del fatto espressivo (con accentuazione interessante del gusto come coscienza della poesia che si fa e si vigila nel suo «farsi»; cfr. La poesia, Bari 1936, p. 35) e attenuava la vecchia rigidezza del canone poesia-non poesia. Valga quest’esempio contro l’immagine assurda di un Croce «splendido isolato» e invece capace pur di risposte autonome, ma non dissociabili da un suo rapporto con aspetti del tempo e malgrado sfasature e arretratezza rispetto al gusto contemporaneo. Per combattere il Croce o ciò che lo distacca piú da noi occorre però identificarne la vera, intera immagine e il ricco svolgimento storico personale, intenderlo e giudicarlo storicamente. Meglio cosí si progredisce al di là della sua lezione che non con l’anticrocianesimo settario.

4 Si ha a volte l’impressione che certi giudizi del Croce siano non solo frutto di sue impostazioni (la «divina malinconia» mancante al Goldoni e il substrato romantico crociano, a volte poi cosí insufficiente di fronte a veri e grandi romantici come Hölderlin e Leopardi), ma anche di una lettura frettolosa e sfiduciata e di una carenza di esperienze particolari: la grave carenza di senso ed esperienza musicale, quella del teatro che si riflette nei casi appunto di Goldoni, Molière e poi Pirandello (a proposito del quale opera anche la ripugnanza del purismo estetico crociano e del filosofo per una problematica non chiarita filosoficamente e avvertita come peso sull’intuizione poetica). La nuova fortuna di Pirandello è legata anche a un sentimento piú pieno del rapporto pensiero-poesia entro forme storiche di problemi tutt’altro che astratti e puramente teoretici, ma concreti e drammatici, di crisi storiche vissute e sofferte dallo scrittore sin nella profonda radice della personalità da cui nasce l’arte. Mentre la non considerazione della favola scenica e teatrale, della sua particolare dimensione e destinazione e tecnica poetica (il che non vuol dire poi separare il teatro dalla poesia, ma intendere le direzioni e ragioni della poesia teatrale e del suo linguaggio), ha pesato fortemente sulla fortuna critica degli scrittori di teatro riscattati semmai per una loro presunta accettazione, malgré loro, del teatro da parte della loro natura lirica e quindi piú leggibili che rappresentabili. Anche i problemi della «decima musa» portano molto al di là delle adempienze del metodo crociano, senza con ciò accettare un’assoluta radicale distinzione del cinematografo quasi anch’esso non fosse una forma di espressione di sentimenti poetici e storici e l’esame dei suoi prodotti non fosse riconducibile ad un criterio storico-critico basato sulla considerazione della poetica cinematografica e delle poetiche dei singoli periodi e dei singoli artisti. Anzi proprio in questo campo un atteggiamento piú storico-critico ricondurrebbe a maggiore centralità gli sbalzi eccessivi fra grezzo contenutismo ed esasperato formalismo e potrebbe in parte rifluire dalla critica nella poetica dei registi.

5 Si veda in proposito la mia nota sul primo volume della Storia del Flora in «Letteratura», 18, 1941.

6 Rimando al mio saggio Attilio Momigliano, «Il Ponte», 6, 1960, ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento cit.

7 «L’Approdo letterario», 1958, e ora in Ritratto del Manzoni e altri saggi, Bari 1961.

8 B. Croce, La poesia, Bari 1936, p. 131. Comunque questa astrazione e, per me, forzatura è pure significativa per quanto dicevo sul Croce (tanto piú ricco di quanto si voglia interessatamente credere e d’altra parte non senz’altro utilizzabile come testo perenne entro cui ricondurre le nostre nuove esigenze anche quando con spunti suoi trovano consonanza, ché il contesto generale di esperienze e di esigenze è diverso e contrasta nel suo insieme con punti centrali di quel metodo) ed è significativa per certo piú cauto e concreto procedere di studiosi come il Sapegno, che sembrano aver ridimensionato certe spinte piú apertamente sociologiche e non vogliono perdere raccordi con Croce in quanto in esso avvertono malgrado tutto (e in mancanza di piú nuove sicure basi) un pilastro di quella fede nella poesia che essi non vogliono perdere, timorosi di trasformarsi in puri storici politici o sociali.

9 È la tesi centrale dello studio, del resto assai apprezzabile sulla linea del rilievo della letterarietà e dell’arte di quei rimatori (linea già aperta dal Russo a proposito dell’Angiolieri, quando quel rilievo significava una tanto piú necessaria reazione alle vecchie interpretazioni psicologistiche e romantiche), di M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa 1953. Del Marti si veda ora, in una direzione per me molto piú concreta e centrale, il saggio sul realismo dantesco (nel volume omonimo, Milano-Napoli 1961). Sulla letteratura perugina del Trecento si veda ora il saggio molto convincente e bene impostato di I. Baldelli, Lingua e letteratura di un centro trecentesco: Perugia, «La Rassegna della letteratura italiana», 1, 1962.

10 Alludo per tutto il petrarchismo al noto studio di D. Alonso, La poesia del Petrarca e il petrarchismo, «Lettere italiane», 3, 1959 (su cui v. la scheda di R. Scrivano, «La Rassegna della letteratura italiana», 2, 1960).

11 E sull’uso corrente della parola «tematica» va osservato che esso rischia di far ricadere negli errori delle vecchie «storie della madonna nell’arte»; mentre i veri temi di un poeta nascono già con una loro interna spinta espressiva legata ai problemi e all’impronta personale-storica dell’autore e possono collegarsi ad altri temi simili solo attraverso il rapporto piú complesso delle poetiche (i Sepolcri e la poesia sepolcrale). Pericolosa è la giustapposizione di una tematica astratta e fissa e di uno stile che tali temi assume a pretesto puro per le sue esercitazioni. Insomma varrà sempre il richiamo almeno indicativo al desanctisiano «tal contenuto tal forma» quando il contenuto non si riduca alla tematica astratta ed esterna.

12 Non posso quindi ovviamente accedere alla conclusione di G. Contini (Parere su un decennio, «Letteratura», N.S., 17-18, 1955) secondo cui ormai «le ricerche di storia letteraria portano esclusivamente, come si deve, su fatti interni alla struttura espressiva, non estranei (ed estraneo comincia a sembrare l’inquadramento dialettico dei fatti acclarati con “altri” arti)». E sarebbe bello – se l’economia di questo discorso lo consentisse – aprire una discussione in proposito (e in proposito all’indirizzo stilistico di questo eccellente filologo e critico) ad un livello diverso da quello su cui l’impostò già il Petronio (cfr. E.R. Curtius e la critica del luogo comune, «Società», 1958). Per alcuni casi di studiosi indicati dal Contini, nell’articolo citato, come esempi del nuovo avvio di ricerche di storia letteraria, rinvio a recensioni di miei scolari: nel caso del Pozzi e del suo saggio sull’oratoria barocca, alla recensione di F. Croce, «La Rassegna della letteratura italiana», 4, 1954, e per il libro di D. Isella, La lingua e lo stile di C. Dossi, Milano-Napoli 1958, alla recensione di M.G. Cavrioli, «La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1959.

13 In «Studies in Philology», 1938. Circa la storiografia dello Hatzfeld si veda anche la scheda di F. Croce sul saggio Italia, Spagna e Francia nello sviluppo dell’età barocca («Lettere italiane», 1957), «La Rassegna della letteratura italiana», 3-4, 1957. E a proposito di storie artistiche e letterarie di tipo tematico-stilistico, si veda la recensione di R. Scrivano («La Rassegna della letteratura italiana», 3, 1961) al pure interessante volume di G. Weise, L’ideale eroico del Rinascimento, Napoli 1961.